Mi sono impegnato ad adattarmi, nel tempo. Non è stata una strada in discesa ma, senza grandi inciampi, di passi avanti ne ho fatti.
Svegliarmi presto ogni mattina con il rumore della sveglia che mi fa dimenticare i sogni - ogni giorno, fin quando la domenica anche il tuo corpo decide che le nove del mattino sono un orario da lavativo.
Finire la giornata davanti a un rubinetto a lavare i piatti, mettere in ordine il sabato mattina, controllare il conto, fare le pulci alle mie spese per decidere se è il caso di comprarmi un sottocasco per non avere freddo al mattino - probabilmente lo comprerò quando il sole ricomincerà ad allungare le giornate. Dire di no alle notti agitate e silenziose; oppure dire di sì, accettando la giornata successiva di trascinarsi fino a sera - aspettando, soltanto aspettando. Rimandare tutto quello che puoi rimandare, perché il tempo per non pensare è talmente poco da non poterlo sprecare.
Mi sono impegnato a trasformarmi: c'è un certo grado di soddisfazione nel valutarti come una macchina che compie operazioni sempre più complesse che, giorno per giorno, costruisce la sua potenza di calcolo. Forse è un certo tipo di droga con cui ci sballiamo di settimana in settimana, anno dopo anno. C'è il premio in ballo per chi si fa di più.
Mi sono impegnato ad acquietarmi. A passare ore nel traffico come se fosse la fila dal tabaccaio, ascoltando alla radio persone che parlavano, parlavano: purché non parlassi io. Invece che leggere le parole sono diventato bravo a leggere le situazioni, gli sguardi, gli atteggiamenti - soltanto così puoi misurare il raggio d'azione che ti è permesso, capire quanto puoi muoverti nella gabbia. Una gabbia, sia ben chiaro, in cui puoi tranquillamente ridere scherzare e divertirti, diventare grande, costruire incredibili imprese e a volte persino innamorarti; ma senza tentare di avvicinarti troppo alle sbarre che chi sta sopra di te definisce e ridefinisce.
Lavorare, insomma, è quello che ho fatto. Ho calpestato dopo una lunga lotta le mie ansie sull'essere capace di inserirmi nello strano algoritmo che regola la mia vita e ci sono riuscito ed è stato un trionfo. Sgusciare tra le preoccupazioni d'essere diverso, del sentirmi d'un altro mondo, di percepire i commenti che mi autoinfliggo nelle bocche e nelle teste degli altri - non è stato facile. Non lo è nemmeno adesso, ma lo maneggio.
Oggi però vorrei fermarmi un attimo, come ci si siede lungo un sentiero. Vorrei riassaporare un giorno di quelli che ricordo e dimenticarmi di questa gabbia e guardare la valle che scendendo scivola tra i versanti delle montagne. Stare in silenzio per un po', riascoltare il mio corpo senza fretta e senza calcolare la stanchezza in vista della prossima salita.
Oggi è morta una persona.
Ci siamo affacciati alla finestra: ambulanze, vigili del fuoco, carabinieri, polizia. Le transenne segnavano il perimetro attorno al posto in cui mangio ogni giorno, mentre "faccio rete" con i colleghi, mentre "sviluppo" le relazioni. Non ci hanno detto subito cos'era successo, però vedevo negli sguardi tra i capi che già sapevano. È strano come un cenno col mento, oppure un piccolo inarcarsi del sopracciglio possa comunicare tra due persone in mezzo a cento - "Sì, è morto". Ma non ci siamo affacciati tutti alla finestra.
Lo schermo è un luogo che amo. In quel posto, a ogni problema c'è immancabilmente una soluzione. Può richiedere tempo e fatica, ma ad ogni ostacolo corrisponde con assoluta certezza un modo per superarlo e la consapevolezza che puoi raggiungerlo. Ma oggi il problema l'ho visto nello schermo stesso, negli occhi che non hanno guardato fuori dalla finestra, nei clic del mouse che dentro di me erano il ticchettare di un conto alla rovescia. Non ho sentito la consapevolezza di una soluzione a quello sguardo. Al termine di quel ticchettio, ho capito che non sono l'unico a fingere e che non sono affatto d'un altro mondo. Che tacere se stessi è l'attività principale delle otto ore di lavoro in cui la sopravvivenza si cerca aspettando, soltanto aspettando, che arrivino le sei. E vale tutto, qualsiasi stratagemma, pur di rendere quell'attesa lieve. Ma non è un'attesa passiva, è un concentrato dimenarsi nel produrre e nel non fermare la macchina, nemmeno quando perde pezzi, nemmeno quando a cento metri dalla tua finestra c'è un corpo schiacciato da un macchinario di sei tonnellate.
Al termine di quel ticchettio, mi ha spaventato vedere tutti procedere allo stesso modo, con lo stesso scanzonato scherzare, con le solite battute di ogni giorno, con i sorrisi e le risatine quotidiane. Mi sono spaventato perché da tempo passo le giornate a misurarmi con uno standard che oggi si è rivelato un incubo. Ho piegato parte di me stesso per compiacere una gigantesca ruota che gira e investe tutto ciò che le si para davanti, con noi all'interno sballottati in ogni direzione come in certe serate che finiscono troppo tardi e con troppo sostanze in corpo.
Oggi sono uscito di lì camminando con un collega di quelli. Più ci avvicinavamo all'uscita, e più parlavamo di quanto fosse scioccante e assurdo. Più ci avvicinavamo al gabbiotto dell'ingresso, più le cose prendevano la forma della realtà e l'estasi della droga scemava. Quando ho timbrato l'uscita e ho aperto la porta, davanti a me c'erano due donne con gli occhi bagnati dalle lacrime. Non conoscevano quel posto. Ci siamo incrociati in quel frangente, mentre loro entravano disperate e io uscivo accendendomi una sigaretta.
Ho salutato il collega, ci vediamo lunedì.
Uscendo dalla gabbia, le cose sono diverse. Guardando le sbarre dall'esterno, non hai paura di toccarle. E quando sei fuori puoi pensare alla differenza che ti separa da quello che c'è lì dentro, ricordartene, farne qualcosa.
Ma oggi una persona è morta e io voglio fermarmi a ricordarmi i miei sogni.